Altoparlanti e riproduzione musicale (I parte)

 

 

 

Gamma Fostex 1980

 
Altoparlanti Fostex 1980
La nascita dell’altoparlante dinamico risale al 1874 e negli anni ’20 assume le sembianze che noi oggi conosciamo eppure pochissimo è cambiato nella sua struttura di base: esistono nuovi materiali per la sintesi delle membrane, varie filosofie di realizzazione degli avvolgimenti e nuovi disegni. Ma sostanzialmente è rimasto invariato fino ad oggi. Un magnete più o meno potente, uno o due avvolgimenti e una membrana, il tutto connesso ad una struttura “portante”: il cestello del woofer o la flangia del tweeter. 

Anzi molti costruttori di un certo rilievo hanno da qualche tempo rispolverato soluzioni e materiali nati anche venti/trenta e più anni fa (come il Neodimio e il Kevlar, implementati negli anni ’70, o le membrane concentriche per le unità medio-alte adoperate verso la fine dei ’60).

Anche in altri campi della riproduzione audio Hi-Fi stiamo assistendo da qualche anno, in particolar modo con gli amplificatori a tubi termoionici, ad una sorta di ritorno al passato con la proliferazione di un nutritissimo nugolo di nuovi costruttori, in larga parte artigianali, l’80% dei quali propone oggetti a valvole. Ma anche in questi casi non vi è (e non vi potrebbe essere) nulla di nuovo, poiché la valvola è un elemento nato circa un secolo addietro, attorno a cui è stato oramai studiato e sperimentato tutto, che negli anni ’70 aveva già raggiunto il suo massimo splendore e i grossi costruttori dell’epoca erano già in grado di far esprimere ai massimi livelli.

 

Pioneer HPM-1100Quam speaker    

 

Per i nostri trasduttori, che a differenza delle valvole, hanno visto nascere moltissimi nuovi modelli negli ultimi trent’anni, la ricerca tecnica e i nuovi strumenti di produzione hanno consentito effettivamente un miglioramento evidente delle prestazioni medie e in particolare della dinamica gestibile da parte delle nostre casse acustiche, rispetto agli anni passati.

Tuttavia, ad un certo punto si è verificata un’inversione di rotta e paradossalmente le versioni più recenti di diffusori acustici che alla loro comparsa avevano raccolto un ottimo consenso di pubblico per le loro prestazioni, vanno peggio delle precedenti.

Una delle spiegazioni principali può essere rintracciata nella continua ricerca, da parte delle case, di materiali per la costruzione dei coni e dei cestelli che siano di facile stampaggio, risultino piuttosto economici e anche durevoli. Questi materiali però, non sempre si sposano bene con la riproduzione fedele del suono e spesso i compromessi cui le case giungono per contenere i costi di produzione finiscono per pesare sulla resa musicale finale.

Una seconda spiegazione, risiede nella “cattiva educazione” musicale di questi ultimi anni, figlia dei file multimediali compressi e del T-Amp, che vuole suoni freddi impattanti e iper-definiti, ben distanti dalle caratteristiche acustiche di un qualsivoglia strumento musicale reale voce compresa.

Questa è però una considerazione che abbraccia non solo gli altoparlanti, ma un po’ tutta la produzione Hi-Fi dalla seconda metà degli anni ’90 fino ai giorni nostri, che hanno subito una sorta di “decadimento” prestazionale progressivo con l’aggiornamento dei modelli. Anche esigenze estetiche attuali, che costringono ad utilizzare per la costruzione e la finitura dei mobili, materiali talvolta poco idonei ad interfacciarsi con un’altoparlante, sono causa di alterazioni soniche.

 

 

Rendere complesso ciò che è semplice

(“complicato è bello”??!)

 

 

Kenwood 7070Negli anni’60 e ’70 le casse acustiche venivano disegnate e costruite (parliamo di prodotti commerciali e noti, non artigianali) secondo concetti quasi puramente pratici: questo, in parte, per la mancanza degli odierni strumenti di calcolo e simulazione. Dimensioni e disposizione degli altoparlanti venivano stabiliti molto spesso in base all’impatto visivo che si voleva ottenere (molto ricercato in quegli anni: un diffusore che appariva “serio” e professionale, sovente godeva di maggior considerazione da parte degli appassionati) e ai risultati acustici che ci si attendeva. In pratica si procedeva in questo modo:

il progettista consegnava le bozze del progetto di diffusore e i piani costruttivi di massima al reparto prototipi; qui venivano assemblati alcuni esemplari sperimentali che venivano misurati e ascoltati in condizioni più o meno controllate; veniva fatto il confronto tra risposta in camera anecoica e risposta ipotizzata in ambiente. Se i risultati si approssimavano a quanto ricercato, si passava allora alle prime unità pre-serie che recavano gli aggiustamenti nella disposizione degli altoparlanti e nella struttura dei filtri apportati sui primi prototipi e che avvenivano in buna parte ad orecchio ed in forma empirica. La fase successiva era il diffusore definitivo. Non erano rari poi, i confronti diretti tra evento suonato dal vivo e riproduzione dello stesso attraverso i diffusori in prova, a volte con risultati che ancora oggi risulterebbero sorprendenti.

E infatti esistono casse di quei tempi considerabili oggi ancora insuperate in certi parametri e divenute ovviamente oggetto ambito da collezionisti e amatori. Osservando l’interno di queste casse e i loro driver si nota una accuratezza di assemblaggio ottima, seppur non maniacale e soluzioni tecniche tutto sommato semplici nel concetto.

Se quindi già trentacinque anni fa era possibile costruire casse e altoparlanti in grado di riprodurre la musica con un livello di naturalezza e completezza ancora oggi apprezzabili e desiderabili, vuol dire che i progettisti di allora tutti ingenui non erano e che alcune problematiche connesse all’interfacciamento tra altoparlante ed amplificatore, anche se non misurabili e simulabili come oggi, erano comunque già conosciute e in qualche maniera affrontate.

 

Philips serie monitor attiva

 
Philips active speakers

                                                      

 

Personalmente rispetto le filosofie e gli approcci altrui, anche quando non li condivido, ma ritengo dispersivi e inutili taluni tentativi di risolvere problemi a volte poco complessi, elaborando a tutti i costi teorie complicate e spesso limitatamente applicabili a quello specifico contesto, quasi che una soluzione efficace sonicamente debba per forza essere anche tecnicamente complessa.

Un paio di esempi:

 

1)

Prendiamo un largabanda (che sia un LOWTHER, un FOSTEX o quello del televisore monofonico in bianco e nero non importa) si tratta di un componente che nasce per riprodurre una larga porzione della banda audio, esclusi giocoforza gli estremi banda. Ora perché la resa di queste frequenze appaia il più possibile completa e coerente è necessario che il cono e il complesso magnetico presentino precise caratteristiche, leggermente differenti dagli altoparlanti a gamma predefinita (woofer, tweeter…); i parametri del trasduttore sono dimensionati per ottenere un passa-basso e un passa-alto naturali calcolati in modo che tra la frequenza di roll-off inferiore e quella superiore, vi sia un certo rapporto. Rapporto utile perché si abbia la sensazione di avere una risposta più estesa e regolare di quanto il componente realmente sia in grado di offrire. Chi possiede una radio antica o una vecchia TV b/n col mobile in legno sa bene quanto sia piacevole e ricco il suono emesso, eppure l’altoparlante in dotazione in genere è un componente in carta molto modesto e di potenza mai superiore a qualche Watt, ma il rispetto di questo rapporto, unito all’amplificatore appositamente ottimizzato, rendeva l’emissione comunque molto gradevole, benché con le limitazioni del caso.                                                                                                                                                                  

Cercare di estendere a forza la resa del componente oltremodo verso il basso, con complicate linee di trasmissione, mobili in pietra lavica riempiti di blocchi di tufo e filtri concepiti dal mago Zurlì, porta spesso ad un funzionamento “sguaiato” dell’altoparlante, con la produzione di forme di distorsione meccanica ben più fastidiose di quelle elettriche e quasi impossibili da sopprimere a questo punto.                             

Molti si lamentano del carattere “medioso” del full-range e danno la colpa al tipo di trasduttore (che comunque spesso ha  una connotazione un po’ mediosa soprattutto i diametri piccoli) ma in molti casi la colpa è della cassa in cui è montato il componente.

 

Verso l’inizio degli anni ’90, periodo in cui lavoravo tra Roma e Milano occupandomi in buona parte di professionale, vi erano ancora molti studi di registrazione che operavano con i monitor passivi, almeno per quanto riguarda gli essenziali nearfield (molte volte YAMAHA e JBL, oppure QUESTED o EVENT) la cui amplificazione veniva scelta con criteri basati su un buon compromesso tra equilibrio e riserva di potenza (molto importante in sala di registrazione). I sistemi attivi, pur essendo comunque largamente adoperati, non erano diffusi come oggi che invece vanno per la maggiore grazie alla elevata praticità e relativa economia.

Le YAMAHA NS-10 sono stati i nearfield più diffusi in assoluto in ambito studio e, benché non fossero l’emblema della linearità, si prestavano egregiamente all’uso monitor, mentre risulterebbero quasi del tutto inascoltabili  in ambiente casalingo su un normale impianto home e con i criteri di valutazione dell’hi-end attuali.

Le NS-10 non hanno quasi basso (ma ho detto quasi)e molti studi le equalizzavano per renderle più complete, col risultato che erano numerose quelle a cui dovevo ricostruire o sostituire i coni (degli ottimi 16 cm in cellulosa purtroppo oramai difficili da reperire).

La cassa è una sospensione acustica a due vie con filtro a 12 dB/Oct senza alcuna sofisticheria, ma è diventata un riferimento. Perché allora, se parliamo di amplificatori la letteratura audiofila vuole la semplicità circuitale come garanzia di buon suono, per le casse poi dovrebbe essere diverso?

 

Yamaha NS-10 Yamaha NS-10M   Yamaha NS-460  NS-460